di Aldo Cazzullo
Il giornalista, scrittore e conduttore: «Il fascismo? Non fu come si racconta oggi. Il Ponte sullo Stretto finirà come il Mose: prima una guerra santa di tutti contro la paratia nascosta, adesso sono tutti a favore. Nell’Aldilà? Troverò i fichidindia sbucciati da mio padre»
Pietrangelo Buttafuoco, qual è il suo primo ricordo?
«L’asino che gira su se stesso, legato a un palo, per calpestare le spighe sparse sui grandi teli di iuta. Il vento solleva i frammenti di paglia lasciando al suolo i grani di frumento. Tutto intorno la festa della campagna: annata ricca, massaro contento. E io felice».
Com’era la Sicilia della sua infanzia, quella degli anni ’60?
«Come negli anni ’40, come negli anni ’30, e dunque come al tempo di Demetra. Quella scena che ho ancora negli occhi si svolge nella vallata di Proserpina e ogni primavera, lungo l’autostrada Palermo-Catania, la ragazza corre dalla sua Rocca verso Etna lasciando dietro di sé un fiume di fiori. Il mio amico Basilio Varveri, docente di filosofia, la scorsa primavera ha eretto a Leonforte un altare alla Dea. E non è certo folklore».
Lei ha dedicato un fortunato romanzo, Le uova del drago, allo sbarco americano in Sicilia. Come sono andate davvero le cose? Gli italiani si arresero o combatterono?
«Giusto qualche giorno fa ho percorso la strada che da Gela porta a Piazza Armerina, dove c’è il cippo che riporta ai giorni della grande battaglia. Fa impressione vedere sventolare insieme la bandiera italiana, quella tedesca e quella americana. Che i caduti tra loro nemici siano raccontati da una stessa lapide è tema del greco Euripide commosso dalla sorte dei nemici troiani; niente a che vedere con l’isteria manichea di questo nostro tempo».
Bellissimo. Ma non ha risposto alla domanda.
«Gli italiani combatterono».
Un altro suo libro si intitola Buttanissima Sicilia. Perché?
«Perché in Sicilia siamo convinti di avere delle autostrade, che tali non sono, perché abbiamo un ammasso di incompiute tra le più urgenti e necessarie infrastrutture, perché abbiamo scientemente ucciso l’agricoltura, l’imprenditoria, per non dire poi del turismo laddove resta appesa la domanda delle domande: com’è possibile che la vetrina della villeggiatura — in termini di Pil, di economia e commercio, intendo — sia nel dappertutto ordinario d’Italia e non nel luogo straordinario dove ci sono Ortigia, Ibla, Taormina, Cefalù o Lilibeo?».
È sicuro che senza l’autonomia le cose migliorerebbero?
«L’autonomia che funziona altrove in Sicilia è una tragedia. Ma visto che l’autonomia speciale non si può togliere una soluzione c’è. Chiedere a Luca Zaia di candidarsi a Palermo per il governo della Regione. Gli offro residenza e domicilio — previste da regolamento — a casa mia, ad Agira. E così lui raggiunge due risultati, anzi tre: fare il quarto mandato, godersi quello Statuto speciale altrimenti impossibile in Veneto e restituire all’Europa il Mediterraneo. Uno come lui lo può fare».
All’inizio lei si firmava Dragonera. Perché? Buttafuoco non era abbastanza terribile?
«Ero grato al battesimo tutto di teatro che i miei genitori vollero darmi, portandomi al Sistina da bambino. Per vedere Rinaldo in campo, con Dragonera e gli altri due briganti. E i tre somari».
Come si è trovato a Roma?
«Una città irrisolta. Patisce il complesso di non essere Napoli e di non riuscire a diventare Torino».
E ora come si trova a Venezia, da presidente della Biennale?
«La capitale d’Oriente. Ho scoperto, viaggiando, che per tutta quella parte di mondo che coincide con l’Asia e con il futuro è una meta. Non esagero: la Serenissima, per l’Oriente, è quel che fu New York per l’Occidente».
Ci si aspettava l’occupazione della Biennale. Invece lei al cinema ha confermato Alberto Barbera, uomo di sinistra, e a teatro ha chiamato un artista americano, Willem Dafoe. Perché?
«Perché la vera rivalsa, specie nel lavoro culturale, è l’eccellenza. Chi è più bravo di Barbera? Chi di Dafoe? Chi, nella musica, più di Caterina Barbieri? Chi più di Carlo Ratti nell’architettura, chi più di Sir Wayne McGregor nella danza? Seguo una regola a suo tempo insegnatami da Mimì La Cavera, un galantuomo assoluto della Confindustria che fu: le persone migliori sono quelle che devi supplicare di accettare l’incarico che gli offri, mai quelli che si propongono. E così ho fatto coi direttori di Biennale. Sono stato io a cercarli. E a convincerli».
Per il Cinema, lei ha detto che a Venezia la Biennale organizza una Mostra e non un Festival. Perché?
«Perché a differenza dei festival, dove è ovvio farne sagra e rondò, qui non si fa l’evento bensì si “mostra”, vengono insomma messi in mostra artisti che poi faranno storia. Vale per le arti figurative, per le altre discipline, a maggior ragione per un’espressione forte di industria qual è quella del cinema. Se non ci fosse stata la Biennale, il mondo non avrebbe avuto la possibilità di conoscere Kurosawa. Qui si scelgono film che restino nel tempo e che magari saranno capiti domani. E non necessariamente subito».
Quest’anno alla Mostra ci saranno Sorrentino, Bellocchio, Guadagnino, Gianfranco Rosi. E la destra dov’è?
«È riduttivo parlare di destra e sinistra. Perfino fuori luogo, se non fuori tempo massimo. Alla Mostra ci sarà anche il sommo Franco Maresco che, a tutti gli effetti, è il Louis Ferdinand Céline della cinematografia. Che facciamo, lo denunciamo alle autorità ai sensi dei Decreti sicurezza?».
Lei è considerato da molti un fascista. Sbagliano?
«Già il fascismo non fu fascista per come lo racconta la pubblicistica di oggi; figurarsi cosa possano indovinare questi molti riguardo alla mia persona. È sempre comodo infilarsi nella botola del luogo comune. Questa stessa sua domanda me la fece Norberto Bobbio. Posso ripetermi nella risposta: “Ho amato lo scandalo di chi gioca da fascista in questo dopoguerra perché è stata la prospettiva più inedita da dove ho potuto fare altro, diventare altro, per leggere e studiare in orizzonti ad altri inaccessibili. Lo confido così, al grande studioso, non al suo entourage”».
A proposito. L’intervista a Bobbio sulla sua lettera al Duce fu una trappola, o una confessione che il professore non vedeva l’ora di togliersi dalla coscienza?
«Semplicemente giornalismo. Applicai la regola di Giovanni Minoli, tutta di domande. Io feci una domanda, e Bobbio, con onestà intellettuale, rispose».
Esiste ancora un’egemonia culturale? Se sì, chi ce l’ha, la sinistra o la destra?
«Se si tratta d’Italia, e mi pare che il tema sia tutto italiano, purtroppo esiste solo il più logoro provincialismo, la pigrizia mentale di incasellare questo e quello nel frattempo che le università italiane si svuotano e le case editrici non pubblicano più gli Stefano D’Arrigo (speriamo che Matteo Salvini intitoli a lui il Ponte di Messina) ma quella che un tempo si sarebbe definita “lettura da scompartimento del treno”».
La destra ora è al governo. Che prova sta dando secondo lei?
«Già solo per il Piano Mattei — quel fare ponti verso l’Africa e l’Oriente in luogo di muri — e per il Piano Olivetti, le misure urgenti in tema di lavoro culturale, è gran bella prova».
«Giorgia Meloni è il mattatore in una prova d’orchestra prossima al debutto. Nel palcoscenico del mondo che verrà».
Finalmente un ottimista. Ma il Ponte, oltre a dedicarlo a Stefano D’Arrigo, va fatto o no? Come finirà secondo lei?
«Finirà come con il Mose. Prima una guerra santa di tutti contro la paratia nascosta nella Laguna; adesso non ne trovi uno di veneziano che sia contro, visto che protegge dall’acqua alta».
Come sarà la Biennale Arte 2026, dopo la scomparsa improvvisa della curatrice da lei designata, Koyo Kouoh?
«Sarà appunto la Biennale per come l’ha costruita Koyo Kouoh. Ho parlato con lei ancora due giorni prima della sua morte. Il suo meraviglioso mondo, la sua costruzione, è nell’azione vivente di un’energia creativa che prescinde dalla sua stessa intenzione. Lavorava senza presagire l’immediatezza della fine. Quel che lei ci ha consegnato di Biennale, noi realizziamo».
La Biennale è anche Danza, Musica, Architettura. Come si è trovato in questa pluralità?
«Come un iniziato ai Misteri, vorrei dire. Come al seguito di un corteo dionisiaco. Come, insomma, un privilegiato che sta al fonte da cui sgorga il genio e l’ingegno di Biennale, macchina perfetta».
Perché ha voluto far rivivere una rivista cartacea come quella storica della Biennale?
«Per una precisa responsabilità dell’istituzione. Essere cattedra rispetto alle discipline di Arte, Architettura, Danza, Musica, Teatro e tramite queste offrire al mondo — la rivista è internazionale — gli argomenti di discussione pubblica del domani».
L’Archivio storico avrà una nuova sede all’Arsenale. A cosa serve oggi un archivio?
«Debora Rossi che guida questa delicatissima fabbrica — la settima Musa a tutti gli effetti — ha indirizzato il patrimonio di centotrenta anni di storia verso un destino specialissimo e duale: essere centro di produzione e centro studi. La futura sede in Arsenale sarà una mirabile sintesi di due esempi a tutti noti: il Centro Pompidou e Cinecittà. La rivista è figlia dell’Archivio, come i progetti speciali che ci hanno impegnati in quest’anno: dal Vangelo di Giovanni di Meister Eckhart a “Il vento che fa il Cielo”, il ripercorrere le tappe di Marco Polo che ha portato Biennale in Cina, in Mongolia, in Turchia e prossimamente anche in India».
La Cina come l’ha trovata?
«Grossolanamente me la sono raccontata così: un albero dalle radici saldamente affondate nell’identità millenaria imperiale, il cui tronco è la volontà di potenza e le cui fronde — senza contraddizione alcuna — sono quelle del marxismo-maoismo».
Ma la Biennale è ancora laboratorio? O piuttosto vetrina?
«Bottega. Nel senso proprio dell’arte. Il posto dove le generazioni possono virtuosamente costruire il passaggio di consegne, la formazione e l’applicazione. La presenza dei giovani nei nostri appuntamenti e nelle Mostre è entusiasmante».
Qual è il pubblico della Biennale?
«Appunto, giovane. Non voglio dire internazionale; trovo più coerente dire universale. E neppure dico moderno; perché quel che vedo transitare a Venezia, nella operosa bottega di Biennale, è il futuro».
L’arte da tempo ha divorziato dal bello. Ma ora sembra aver rinunciato anche a suscitare emozioni. Lei cosa pensa dell’arte contemporanea?
«Ha un obbligo interdisciplinare, e questo è un bene. Non si riesce più a distinguere una coreografia da una performance di teatro o di arte in senso stretto; e tutte le tecnicità sono prese in prestito da tutte le discipline senza più confini definiti. Ed è anche un “ritorno al passato” se si pensa che era un’ovvietà, per gli artisti, essere contemporaneamente scienziati, filosofi, matematici. All’arte contemporanea urge un confronto con Henry Corbin e il suo Immaginale, l’espressione più pura del potere immaginativo. Senza dimenticare Pavel Florenskij, il Leonardo da Vinci — artista e scienziato — del nostro tempo».
Ma non c’è il rischio che tutto sia rivolto al mercato?
«No, non è solo mercato. È anche politica, anzi, geopolitica, se si pensa che per gran parte del mondo futuro — Medio Oriente, Asia e Africa — l’arte contemporanea anticipa la marcia di un orizzonte tutto destinato al futuro»
Un genio siciliano è Franco Battiato. Chi era per lei?
«Un artista incamminato lungo la via “di quel che ha da venire”».
«Un artista che ha voluto regalarmi, se non l’amicizia, la complicità. Come quando per tre mesi, incontrandoci due pomeriggi interi ogni settimana a casa sua, radunando con me Valentina Alferj e Antonio Manzini, volle costruire una storia scrivendola tutti insieme a partire da un semplice spunto: un Catania-Roma in volo, tutto di vuoti d’aria, sobbalzi e scossoni. Una storia che non vedrà mai la luce».
Qual è per lei il posto più bello del mondo?
«Il punto esatto da dove, girando su me stesso, vedo le Madonie, i Nebrodi, i Peloritani, gli Iblei in lontananza, quindi i Sicani e poi ancora i bagliori di Motia. Sto parlando di Altesina, la montagna degli Erei da dove Muhammad al-Idrisi poté tripartire Siqillya: il Val Demone, il Val di Mazzara e il Val di Noto».
E la persona più intelligente che ha mai conosciuto?
«Ne dico quattro. Due giganti del comunismo, un super poliziotto e un gruppettaro: Giuliano Ferrara, Luciano Violante, Gianni De Gennaro e Andrea Del Mercato, il direttore generale della Biennale. Quando parlo con loro prendo appunti».
«Quello che mi accompagna da sempre è Cyrano de Bergerac».
Quali sono i libri della sua vita? E i film?
«Salomè di Carmelo Bene. Il mio libro, quello che avrei voluto assolutamente vivere, è Il maestro e Margherita».
«Attesto che non c’è altra divinità che Dio…».
Questa è la professione di fede islamica.
«…E Muhammad è il sigillo della Rivelazione».
Allora è vero che lei è musulmano?
«Da Lui veniamo, a Lui torniamo».
«Faccio mia la spiegazione del Paradiso che il cardinal Biffi fece a un bambino: “I tortellini che ti prepara mamma”. Dunque i fichidindia sbucciati da mio padre, il biancomangiare preparato da mia madre e la tana delle volpi, in campagna, dove corro ogni mattina prima di entrare nel nuovo giorno».