
Catania scivola. E non di una posizione, non di due. Ma precipita di tredici gradini rispetto al 2024, nella classifica annuale del Sole 24 Ore, che è diventata un must. Uno smottamento verticale che non può essere liquidato come una congiuntura sfortunata o come una semplice oscillazione statistica. È il segno inequivocabile di una città che arretra mentre il resto del Paese prova, almeno, a muoversi.
Molti fanno finta di sorprendersi. Altri, più onestamente, fingono direttamente di non vedere. Ma la verità è sotto gli occhi di tutti: il peggioramento non è un fulmine a ciel sereno, ma la conseguenza diretta di una linea politica e amministrativa improntata più alla repressione che allo sviluppo, più alla chiusura che all’apertura, più alla paura che alla visione.
Negli ultimi mesi si è scelta una strada che ha bloccato interi settori economici, ha frenato la vitalità commerciale e sociale della città, e ha alimentato una spirale recessiva che non poteva che condurre a questo risultato. Una gestione che invece di creare opportunità ha prodotto stagnazione; invece di attrarre energie le ha disperse. Una città che non cresce, che non produce, che non offre spazi di mobilità sociale, è inevitabilmente una città che si impoverisce. E l’impoverimento, lo sappiamo, è il terreno di coltura perfetto per la criminalità. Per poi non parlare di ciò che soffoca la città ed anche il suo hinterland, il traffico ormai insostenibile, i parcheggi che mancano e il cittadino non riesce più a posteggiare la propria auto. Insomma il festival del caos.
Non stupisce, infatti, che accanto all’arretramento economico e sociale si registri un aumento degli episodi criminali. Perché quando manca lavoro, quando manca prospettiva, quando manca un disegno complessivo di sviluppo, è il territorio stesso che si sfalda. E lo spazio lasciato vuoto dalla politica viene immediatamente occupato da chi sa muoversi nell’ombra.
Il punto non è dare la colpa al destino, né lamentare una presunta “cultura cittadina” che torna sempre utile quando si vuole evitare di assumersi responsabilità. Il punto è che a Catania si è scelta — o si è lasciata scivolare — una direzione sbagliata. Una direzione che ha tagliato, limitato, represso, senza costruire, senza innovare, senza investire. Una direzione che ha creduto che la sicurezza potesse essere ottenuta solo con i divieti, e non col lavoro, con i servizi, con lo sviluppo.
Il risultato è davanti a noi: tredici posizioni perse. Non una statistica. Un sintomo gravissimo. Perché quando una città retrocede così in fretta, significa che tutto ciò che la tiene insieme sta perdendo aderenza: l’economia, la coesione sociale, la capacità amministrativa, la visione politica. Nella speranza che a rivitalizzare l’azione politica saranno gli ultimi innesti in giunta che vivono la città e non solo i salotti.
Catania non merita questo declino silenzioso. E soprattutto non merita che questo declino venga raccontato come inevitabile. È frutto di scelte. E ciò che è stato scelto può — e deve — essere cambiato.
È arrivato il momento di dirlo con chiarezza: servono politiche di crescita, non di paura; serve sviluppo, non chiusura; serve un progetto, non un elenco di divieti. Perché una città che reprime tutto ciò che si muove, finisce per diventare una città in cui l’unica cosa che si muove davvero è la criminalità.
E Catania non può permetterselo.