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LA LUCE E LE TENEBRE. Il Paradosso di chi sapendo di essere condannato dalla giustizia umana si rifugia in quella divina

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È un messaggio luciferino, quello apparso nella notte di Natale sui social, perché tenta di rovesciare l’ordine delle cose. Chi sa di essere colpevole davanti al tribunale degli uomini, cioè davanti alla legge, alla comunità, alla storia, non cerca il giudizio divino per una pseudo-redenzione, lo usa come alibi.

È luciferino sia nel senso folkloristico del male, ma soprattutto in quello più profondo. Lucifero è colui che si ribella all’ordine, che pretende di stare sopra il giudizio, che confonde giustizia e arbitrio. È qui che questo messaggio diventa luciferino, perché non accetta l’ordine del giudizio, lo capovolge, cercando di trasformare la condanna considera certa in persecuzione, l’accertamento in complotto, la responsabilità in martirio.

Ma quando la colpa è certa, riconosciuta, la condanna è inevitabile, perché fondata su fatti assolutamente documentati, allora si compie il salto finale scavalcare gli uomini e chiamare in causa Dio. Una blasfemia!

Non certo per pentimento, ma per sottrazione. È una fede strumentale, non salvifica. Non chiede perdono, né tantomeno è un atto di fede, chiede solo l’annullamento della realtà.

Il paradosso è feroce, in quanto chi invoca il tribunale divino per sfuggire a quello umano nega entrambi. Perché nega la giustizia degli uomini, rifiutando la responsabilità che offende la giustizia divina, riducendola a rifugio per colpevoli non pentiti. In questo caso il giudizio umano non è astratto, ha nomi, atti, sentenze, scioglimenti per mafia, interdittive, relazioni prefettizie, carte che parlano più delle parole. E quando quelle carte diventano definitive, scatta il riflesso più antico e più ipocrita, la chiamata in causa di Dio, cercando un’assoluzione impossibile. Dio non assolve chi lo invoca contro la verità.

È un messaggio che trasuda di potere, di ipocrisia, di una religiosità piegata a proprio scudo morale. Ed è tremendamente terribile, perché ogni volta chi è stato smascherato si proclama perseguitato, martire, eletto.

Qui, quindi, il messaggio luciferino assume una forma precisa, riconoscibile e rituale. È il messaggio di chi, sapendo di essere arrivato alla fine del percorso davanti alla storia, agli uomini, sceglie di non affrontarlo moralmente fino in fondo e alza gli occhi al cielo, non per pentirsi, ma per sottrarsi.

E quando quelle carte diventano definitive scatta il riflesso più antico e più ipocrita, la chiamata in causa del Bambino Gesù. Non la giustizia divina come conversione, ma come ultima linea di difesa politica e morale. Una fede esibita, strumentale, rumorosa, che arriva solo quando il sistema di protezione istituzionale è crollato. E trasforma la condanna in persecuzione, l’accertamento in complotto, la responsabilità in martirio.

Ma questo schema è tristemente noto, si governa il potere come se fosse proprietà, poi si nega l’evidenza amministrativa, infine, quando gli inquirenti e lo Stato intervengono, lo scoprono, scatta il paradosso, si sacralizza se stessi e il tribunale degli uomini diventa “ingiusto”, “politicizzato”, “nemico del popolo”. E Dio viene evocato non come giudice supremo, ma come scudo simbolico, come autorità alternativa chiamata a delegittimare quella terrena.

È una bestemmia religiosa e civile. Perché lo Stato non viene rifiutato in nome della giustizia, ma in nome dell’impunità. E Dio viene usato non per espiare, ma per auto-assolversi senza pagare il prezzo della verità. La giustizia, terrena o celeste, esige una cosa sola, riconoscere la propria colpa in nome della verità, quella oggettiva e non quella personale .

Infatti in questa città sciagurata, dove la confusione tra potere, fede e consenso ha prodotto macerie istituzionali, questo messaggio è tossico. Perché insegna che basta dirsi “inermi” o “credenti” per sfuggire alla responsabilità. Ma la verità resta inchiodata agli atti e nessuna invocazione tardiva può cancellare ciò che è stato fatto, “scambiato”, permesso.

Questo è il punto che brucia.  Se si vuole smettere di essere terra di eterni processi morali e mai di responsabilità consacrata dai fatti, è obbligatorio smascherare questa retorica senza più indulgenza.

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